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Nell’affrontare il tema delle competizioni sui circuiti ovali ci si dimentica spesso che la prima edizione della 500 Miglia di Indianapolis si disputò nel 1911, ben novantacinque anni fa: le interruzioni dovute a cause di forza maggiore si verificarono solo in occasione di due conflitti mondiali e, quindi, questa gara è molto probabilmente la più longeva in assoluto e non accenna minimamente a dar segni di stanchezza. Ai giorni nostri quasi mezzo milione di persone assiste, l’ultima domenica di Maggio, ad una lotta agonistica che può durare ottocento chilometri, oltre il doppio la lunghezza media di un GP di F1, con velocità spesso superiori e molte più possibilità di sorpasso. Un vero spettacolo, al quale noi europei non siamo più abituati.

Molto meno conosciuta la storia della spiaggia di Daytona Beach (foto sotto, nel 1922), il cui utilizzo risale ai primissimi anni del 1900 con una prima gara molto improvvisata tra Alexander Winton (battuto da Henry Ford in persona nel 1901 a Grosse Pointe, Michigan) e H.T. Thomas; il primo “speed festival” del 1903 e svariati tentativi di record fino al 1935 circa.

La storia delle gare sui circuiti ovali, però, secondo lo storico americano Jack C. Fox (“The Illustrated History of Sprint Car Racing”) pare risalga addirittura al 1896, soltanto dieci anni dopo la presentazione della Benz, la prima automobile “funzionante”.

In sintesi queste le radici più profonde del turning left, attecchito prima ancora che lo hot rodding provasse ad innestare nuova linfa nella realizzazione di mezzi destinati a questo tipo di competizioni.

Cent’anni fa, più o meno, lo sport automobilistico americano era abbastanza diffuso negli Stati più evoluti economicamente, vedeva protagonisti molti giovani contagiati dalla cosiddetta “febbre della velocità” (come Harry Arminius Miller, nella foto sopra) i quali non avevano bisogno di specializzazioni perchè potevano partecipare indifferentemente ad un corsa in salita, ad un rally o ad un tentativo di record: molto similmente a quanto stava accadendo anche in Europa, nel medesimo periodo.

Le differenze (se differenze ci sono mai state) iniziarono a rivelarsi con la presentazione della Ford T, l’auto per tutti, e la sua capillare presenza in ogni cittadina o metropoli del Paese: in poche parole la Ford T ha permesso la motorizzazione di massa per la prima volta della storia, negli Stati Uniti d’America. Un Paese che, all’epoca, viveva di quello spirito di frontiera che ne permise l’espansione e la colonizzazione in tutti i sensi. I giovani americani, ovviamente, erano entusiasti della facilità con la quale si poteva smontare, riparare e modificare tutta la vettura, il robustissimo quattro-in-linea e basare nuovi esperimeti sul monilitico telaio a travi paralele, fino a trasformare Tin Lizzie in un hot roadster, più basso, più stretto, più filante e più veloce.

Se chiunque poteva disporre di un veicolo modificato era altrettanto logico aspettarsi che qualsiasi giovinotto appena un pò intraprendente tentasse l’avventura in pista, dove misurarsi con i coetanei, imparare i trucchi del mestiere, conoscere i professionisti (di qualche anno appena più vecchi) e capire che proprio lì, sulla terra, sul fango o sul legno sconnesso dai continui passaggi, era possibile crearsi una carriera pienamente aderente alla visione entusiastica del futuro.

Intere generazioni e dinastie famigliari si sono formate a partire da quei primi, rozzi e titubanti esperimenti, anche attraverso la formazione di nuovi Organismi che avessero la capacità e le conoscenze tecniche necessarie e regolamentare in sicurezza (un’altra caratteristica comune a tutte le attività ispirate allo hot rodding) nuove forme di sport motoristici adatti sia alle “open wheels” che alle “covered wheels”.

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