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Ritengo che un biker possa apprezzare, molto più di un driver, l’emozione di una distesa sconfinata sulla quale scatenare la propria creatura. In ogni caso fu Ab Jenkins, il futuro promotore della Bonneville Speed Week, ad inaugurare l’abitudine di provare il proprio mezzo a motore lanciandolo alla massima velocità possibile: Jenkins raggiunse, nel 1907, le sessanta miglia all’ora su una Yale.

Il giornalista (e storico) americano Jeffry L’H. Tank attribuisce l’invenzione della bicicletta, come preludio all’avvento della moto, a Michelangelo, ma credo intendesse parlare di Leonardo da Vinci: in tema di errori o refusi di stampa, è ormai noto che il film “The World’s Fastets Indian” racconta la carriera di un rider neozelandese il cui nome dovrebbe essere Burt Munro, che risulta, invece essere Robert Munro (omonimo di molti celebri personaggi, uno dei quali Governatore dell’Australia) abbreviato in “Bert Munro”. La notizia proviene dalla rivista americana HOT ROD Magazine (HOT ROD YEARBOOK 1964) che per prima (ritengo, almeno al di fuori della Nuova Zelanda) si occupò del “simpatico Bert” in occasione della cronaca dei Bonneville Nationals di quell’anno. Molte biografie recenti, pubblicate dopo la prima del film, insistono su Burt.

Chi scrive è Don Francisco, “technical Editor” dalle indiscusse capacità, il quale puntualizza due fatti importanti: la presenza di Bert Munro su “the Salt” dal 1961 ed una curiosa caratteristica della sua Indian. La carenatura aggiunta al telaio originale presentava una poco usuale apertura in corrispondenza della sella, studiata per consentire a Bert di modificare la sezione frontale del veicolo “sollevando il busto” (come fanno in prossimità delle staccate tutti i motociclisti): la carenatura, infatti, prevedeva che fosse la schiena di Munro a completarne il disegno. Bert Munro aveva sperimentato che in alcune situazioni la sua moto diventava instabile. Proprio per questa ragione riuscì a compiere (nell’Agosto 1964) un solo “run” di andata alla velocità di “sole” 182 mph (oltre 290 km/h).

Di Bert Munro HOT ROD Magazine si occupa ancora nel 1967, questa volta con un articolo di di Bob Greene, il quale è molto più prodigo di notizie: dopo aver definito Bert “a monumentum to human determination”, precisa l’età del rider neozelandese (69 anni nel 1967) e descrive nei dettagli le modifiche apportate al motore.

Le bielle erano ricavate da assali di trattore lavorati a mano; i cilindri ricavati da tubature utilizzate originariamente in un gasdotto; i pistoni “avevano già prestato servizio” in un trattore Ford; la pompa dell’olio era “una moderna unità” prelevata da una Indian “più recente” del 1933; la cilindrata ottenuta da queste operazioni di swapping raggiungeva 58 cubic inches contro i 37 originali (950 cc contro 606) e le testate erano a 4 valvole in testa. La velocità, ufficializzata dai due passaggi regolamentari, fu rilevata in 183,586 mph (295,39 km/h). La qualifica di “Indian più veloce del Mondo” è dovuta alla velocità di 190,7 mph (306,8363 km/h) fatti registrare durante uno dei due passaggi.

In quello stesso anno una italianissima Moto Beta, iscritta nella Classe 100 cc. stabilì il record (omologato dalla American Motorcycle Association) di 82,315 mph, equivalenti a 132,444 km/h.

Un altro rider destinato ad occupare le cronache dei records sulla Long Black Lane è Don Vesco, hot rodder anche sulle quattro ruote: è infatti uno dei pochi personaggi capace di detenere contemporaneamente primati sulle due e quattro ruote. Nel 2002 poteva vantare 18 primati a bordo di una moto e sei al volante di un mezzo a 4 ruote.

La sua carriera iniziò, proprio sui Bonneville Salt Flats, nel 1955, all’età di sedici anni. Soltanto otto anni dopo, nel 1963, poteva già vantare l’appartenenza al “200 mph Club” avendo pilotato uno streamliner automobilistico motorizzato Offenhauser, costruito dal padre, alla media di 222 mph (357 km/h).

Il primo successo con le moto, dopo varie esperienze in pista, arrivò nel 1970 su un “siluro” che contava su due Yamaha da 350 cc ciascuno, con il quale fece rilevare una media ufficiale, sempre sul miglio lanciato, di 251,924 mph (405,346 km/h): con questo Don Vesco era la prima persona al mondo a superare la barriera delle 250 mph e dei 400 km/h. Nel medesimo anno un altro rider, Bob Leppan, aveva raggiunto le 245,667 mph su “Gyronaut X1”, motorizzata Triumph e dotata di un sistema giroscopico di stabilizzazione (da dove la denominazione) che occupò le pagine di molte Riviste del settore.

Don Vesco non era un tipo facilmente accontentabile e, probabilmente, conosceva molto bene i limiti “teorici” che avrebbe potuto raggiungere con la sua formula: ridotta sezione frontale, due sole ruote e motorizzazione motociclistica. Tra il 1972 ed il 1978 aggiunse quasi un metro di carenatura alla sezione mediana longitudinale e aumentò progressivamente la cilindrata dei due propulsori, arrivando anche all’alimentazione forzata. Nel 1978 due Kawasaki KZ-900, rialesati a 1015 cc. e turbocompressi, lo portarono a 315,892 mph (508,270 km/h) e la prestazione fu confermata durante le riprese di un filmato della ABC TV, poi trasmesse durante il programma “Wild World of Sports”. Infatti il 27 Settembre 1978, Don Vesco fermò i cronometri a 333,117 mph (536,070 km/h) risultando il più veloce anche nel confronto con le auto presenti.

La “sete di velocità” non è un “bisogno” di facile soddisfazione: Don Vesco, dopo un paio di incidenti provocati dal “dechappaggio” di due pneumatici, in due diverse occasioni, si convinse che “4 ruote sono meglio di 2” (opinione del tutto discutibile, se vogliamo) ed iniziò il progetto “Turbinator”, caratterizzato dall’adozione di una turbina a gas quale propulsore, pur mantenendo la trasmissione sulle ruote.

Nel 2001 il record ufficiale della Federation Internationale de l’Automobile (F.I.A.) fu portato, con “Turbinator” a 458,44 mph che corrispondono a 737,63 km/h. Neppure questa misura, peraltro, perchè condotta secondo differenti procedure, ha rimosso il record stabilito nel 1965 da “Goldenrod” (soltanto 409 mph). Don Vesco, nato l’ 8 Aprile 1939 a Loma Linda, California, è mancato il 16 Dicembre 2002 a San Diego, per cancro.

A dar seguito alle imprese di Munro e Vesco sulle due ruote hanno, recentissimamente, pensato altri due rider confusi nella poco chiara regolamentazione internazionale, la quale continua a sovrapporre differenti Organismi nel medesimo settore.

Per la F.I.M. il record è di Rocky Robinson su una moto aereodinamica disegnata da Mike Akatiff: 342,797 mph (551,56 km/h). Il mezzo è propulso da due Suzuki-Hayabusa di 1300 cc. ciascuno ed stato denominato “Ack Attack”. I due runs regolamentari si sono svolti alla distanza di 55 minuti l’uno dall’altro sulla distesa di Lake Gairdner, in Australia, il 22 Febbraio 2006. L’attuale record ha superato di venti miglia all’ora il precedente, stabilito con motorizzazione Harley Davidson, da Dave Campos.

Solo quindici giorni dopo, il 5 Marzo 2006, Chris Carr, un “maturo” rider iscritto alla American Motorcycle Association, ha superato le 350 miglia orarie sui Bonneville Salt Flats (Utah, U.S.A.) ma la media di 350,844 mph (564,508 km/h) sarà ratificata soltanto durante il mese di Settembre, sia dalla A.M.A. che dalla F.I.M. La propulsione del “No. 7” (Numero Sette) è assicurata da due bicilindrici a V appositamnete progettati e costruiti per una cilindrata totale di quasi tre litri. “No 7” perchè si tratta del settimo progetto di Denis Manning in quarant’anni di tentativi su “the Salt”.

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Il rituale della partenza (esclusa la messa in moto a spinta) è uguale per le auto e per le moto, sui Bonneville Salt Flats.

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Un prototipo Harley Davidson del 1936 per i tentativi di velocità pura.

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Il siluro di Bob Leppan dotato di stabilizzatore giroscopico.

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Un altro tentativo siglato Harley Davidson.

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Esattamente come per le auto, “anything goes” (tutto va bene), pur di poter correre su the Salt. Anche un “sidecar”.

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Le motociclette corrono anche ad El Mirage, un più praticabile deserto molto polveroso, situato a poca distanza da Los Angeles.

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“No 7”, con tutta probabilità il motociclo più veloce del mondo: oltre 560 km/h.

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Basato su un accidenti di storia vera: è un tributo a Robert Munro, un rider che ha frequentato i Bonneville Salt Flats, fino alla soglia dei settant’anni, con un’incredibile Indian del 1920...

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