La maggioranza degli appassionati europei di motorismo concepiva la moto “custom” come una Vespa (Piaggio) od una Guzzi stracarica di fanali, trombe, portapacchi, specchietti e paraurti, il tutto abbondantemete cromato ed accoppiato a fronzoli in cuoio che adornassero sella e manopole. Un’immagine distorta che fa il paio con un “taxi” delle Filippine di qualche decennio fa, decorato sulla falsariga di un carretto siciliano dei bei tempi andati, ma descritto come uno “hot rod”, auto personalizzata.
La “custom bike” ha conosciuto il più esplosivo periodo di sviluppo oltre trent’anni addietro e sta vivendo la sua diffusione planetaria ai giorni nostri, anche in Europa ed in Italia.
Esattamente come la sua controparte a quattro ruote, la custon bike è, per definizione, una moto in costume, mascherata: al contrario del carnascialesco significato più noto, “costume” può essere meglio definito, in questo caso, come “divisa”, ovvero capo di abbigliamento che “divide” e “distingue” un appartenente ad una certa casta sociale, pur senza discriminazioni. Maschera, del pari, non deve essere interpretato come atto di occultamento, bensì come segno distintivo, personale ed unico.
Molto più indipendenti, liberi ed in certa misura fantasiosi dei loro colleghi “drivers”, i bikers (definiti anche “riders” con termine derivato dall’equitazione) hanno più dimestichezza con le attrezzature dell’officina meccanica e, quindi, sempre più spesso a contatto con i misteri (per gli automobilisti d’oggi) dell’accensione, della distribuzione e dell’alimentazione di un motore mono o pluricilindrico. Se si considera, poi, che la carrozzeria di una moto si riduce a due parafanghi, un serbatoio e, qualche volta, una carenatura laterale, ebbene è quasi naturale pensare che “qualcosa” o “qualsiasi cosa” di una moto possa esser modificato.
Detto e fatto, verrebbe da dire, ed in effetti è proprio così. La prima trasformazione di un biciclo è rappresentata dall’applicazione della carrozzina nella “side-car” (auto a lato, un concetto un pochino pomposo), molto in voga negli anni trenta e quaranta, sempre per colpa della Depressione, quel fenomeno economico che aguzzò l’ingegno di molti, costringendoli ad inventarsi le soluzioni più ardite, oggi quasi impensabili.
Di tutt’altro segno, però, le soluzioni inventate per migliorare le prestazioni e l’aspetto estetico delle due-ruote. Quasi tutti i Fabbricanti di motociclette hanno proposto livree (schemi di colore) standardizzate e proprie della Marca, esattamente come i Costruttori di auto hanno, fino a poco tempo fa, limitato la gamma delle tinte disponibili per le carrozzerie. Perchè una Guzzi (rimaniamo in casa Italia) dovrebbe, per forza di cose, essere rossa? A questa domanda risponde la fantasia della gioventù “hippy” degli anni settanta, proponendo (contemporaneamente ai customizers delle quattroruote) la rivisitazione del “flame-job” o il nuovissimo tema psichedelico, seguito dal “graphic-job” a sua volta soppiantato, più tardi, dal monocolore sfumato. Mai tramontata, peraltro, la personale interpretazione, sempre in chiave grafica, del Marchio di Fabbrica.
Il tutto accostato alla cromatura della telaistica e meccanica in vista, partendo dal concetto di “chopper” che definiva, per lo più, una Harley-Davidson modificata. Telaistica abbassata per ridurre l’altezza del centro di gravità ed assicuarare (solo teoricamente, in qualche caso) una maggior stabilità e limitare l’area frontale, migliorando le doti di penetrazione e, di conseguenza, la velocità massima. Riduzione della massa, soprattutto quando il propulsore non può essere elaborato oltre certi limiti, per migliorare il rapporto peso:potenza, adottando telai autocostruiti con l’impiego di materiali più leggeri, disegni semplificati ed elementi più o meno rigidi. Adattamento della ciclistica (sospensioni, forcelle e ruote) al nuovo disegno, sempre più frequentemente caratterizzato dall’adozione della configurazione “big ’n’ littles” (ruota grande per la motrice, ridotta al minimo per l’avantreno) degli hot rods a quattro ruote.
Ancora come accadde per le custom cars, anche in questo mercato andarono via via affermandosi veri e propri professionisti ai quali gli appassionati più puri hanno affidato la loro creatura affinchè ne traessero un esemplare unico da esibire, indifferentemente, in strada, sulla strip o nello Show: specialisti quali Arlen Ness, Rick Doss, Wyatt Fuller e Bob Lowe, ormai riconosciuti, al pari di altri, al medesimo livello di un artista della scultura o della musica.
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