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Contrariamente (ed in un certo modo, inspiegabilmente) a quanto accade per lo hot rodding, il “mito Harley-Davidson” gode delle attenzioni degli Editori, anche in Italia: la White Star ha pubblicato due pregevoli traduzioni di testi che possono fornire informazioni preziose sulla nascita, evoluzione ed affermazione della Marca di Milwakee. “Harley-Davidson, Evoluzione di un Mito” di Albert Saladini (francese) nel 1999 e “Harley-Davidson, uno Stile di Vita” di Saladini e Pascal Szymezak, nel 2003.

In un certo modo la storia della Fabbrica ripete le avventure e disavventure capitate a molte Aziende Industriali negli anni settanta ed ottanta, quando la concorrenza giapponese, basata su produzione elevata e bassi costi, mise in crisi i vecchi modi di concepire l’organizzazione delle fabbriche.

Passata attraverso una quasi dimenticata joint-venture con l’ italianissima Aermacchi ed il finanziamento esterno di una americana  American Machine & Foundry, la Harley-Davidson Company (già modificata la ragione sociale) riuscì solo con il ritorno alle origini ad affrontare in modo nuovo ed aggressivo la concorrenza che l’aveva quasi distrutta.

Stabilito che i Produttori orientali “imitavano” l’aspetto estetico delle moto americane, ma riuscivano ad offrire veicoli più performanti a prezzi inferiori, il nipote di uno dei fondatori capì che l’arma della riscossa poteva unicamente risiedere nel design e nella qualità. Tutta la catena di produzione venne sconvolta puntando sulle risorse umane (maestranze nella maggioranza dei casi in possesso di una Harley) e sulle attività promozionali (celebrazioni e raduni).

Incidentalmente un film, “Easy Rider” interpretato da Peter Fonda e Dennis Hopper nel 1969, aveva portato alla ribalta un mondo di cui pochi sospettavano l’esistenza, fino a quel momento, ma nato e sviluppatosi a partire dall’estate del 1947.

Il 4 Luglio di quell’anno ad Hollister, in California, la American Motorcycle Association aveva organizzato una serie di gare per celebrare l’anniversario dell’Indipendenza Americana, gare alle quali avevano deciso di iscriversi, chissà perchè, quasi quattromila centauri provenienti da ogni dove. La risolutezza della A.M.A. nel rifiutare i team “non ufficiali” provocò una serie di intemperanze descritte poi dalla stampa come “sommossa”. E’ verificato l’intervento della Polizia e veri sono alcuni arresti, ma nulla sarebbe capitato, in seguito, se nel 1953 non fosse stato proposto “Il Selvaggio” (Marlon Brando e Lee Marvin) che pretendeva di rendere la cronaca degli avvenimenti (ovviamente romanzati in stile Hollywwodiano) accaduti ad Hollister.

I fatti, comunque, registrano, a partire dalla metà degli anni cinquanta (dopo “Il Selvaggio”, in cui Brando cavalca una Triunph e non una Harley), la crescente diffusione di “bande” motorizzate che, sempre più frequentemente, fanno uso di moto “chopper”.

A quanto risulta dalle mie ricerche la prima chopper dovrebbe essere quella realizzata da Chet Herbert nel 1948 (o 1949) per correre in accelerazione, caratterizzata da una media spoliazione di elementi della carrozzeria (parafango anteriore), da un asse a cammes personalmente realizzato da Herbert, alimentazione a benzina in commercio “additivata” da uno spezzone di pellicola Kodak lasciato sciogliere nel serbatoio durante la notte, ed inclinazione ed allungamento della forcella anteriore al fine di favorire il trasferimento dinamico delle masse. La moto, ovviamente, era una Harley-Davidson.

Comunque stiano le cose (non tutti gli harleysti sono d’accordo) le “choppers”, in maggioranza Harley, miravano a potenziare le non proprio esaltanti prestazioni di motociclette concepite per il “gran turismo” più che per le gare, anche se è da notare che, proprio come la Ford, la Harley-Davidson, soprattutto agli inizi, non rifiutava di misurarsi (e con successo) con altre Marche su qualsiasi tipo di pista.

In buona sostanza la “chopper” segue le orme della “hot roadster” a quattro ruote: alleggerimento, prima di tutto. Eliminazione di parti della carrozzeria, soprattutto davanti, con estremi quali uno specchietto da dentista al posto del retrovisore, eliminazione di parafango e freno anteriore, riduzione del serbatoio. “Souping-up” (potenziamento) del propulsore in secondo luogo (il bicilindrico a V aveva già superato i 1.200 cc) ed adozione di verniciature personalizzate con accessori quali la “sissy-bar”, una sella dallo schienale altissimo.

Tutto questo “iter”, durato quasi trent’anni ed unito alla riorganizzazione industriale, doveva essere l’arma vincente della Harley: una moto di qualità, dalla storia quasi centenaria sulla quale chiunque poteva “mettere” le mani senza rifiutare il logo dell’aquila ad ali spiegate (simbolo degli U.S.A.), anzi, esaltandone l’araldica fino a confonderla con “uno stile di vita”.

Le celebrazioni del novantennale dalla fondazione (1993), con in prima fila gli “ZZ Top” e le loro “choppers” e “customs”, ed ancor di più quelle del centenario (2003) sono state, agli effetti pratici, il riconoscimento della Harley-Davidson ai propri Clienti per il contributo sostanziale dato dalla “personalizzazione”: in pratica, a parte quelle in mano ai Collezionisti, nessuna Harley risulta essere uguale ad un’altra e, men che meno a quella uscita dallo Stabilimento.

Il definitivo rilancio si è avuto con la presentazione della “V-Rod”, il cui nome e le cui finalità coincidono con il desiderio di riaffermare la superiorità in pista, in modo particolare la drag-strip, sulla quale proprio una Harley-Davidson V-Rod (Pro Stock Bike N.H.R.A.) è stata la prima a scendere sotto la barriera dei sette secondi sul quarto di miglio.

 

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Harley Davidson, 100th Anniversary Motorcycle Video

 

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