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Non tutti gli hot rodders conoscono ed apprezzano i lowriders, ma la loro storia è altrettanto interessante quanto quella della prima generazione di hot rodders.

Il primo movimento di connotazione etnica riferibile ai progenitori degli attuali lowriders è fatto risalire da alcuni storici di lingua ed etnia spagnola ai primi del novecento, quando l’immigrazione dal Messico verso gli Stati Uniti (Texas e Stati limitrofi fino al Sud California) registrò punte crescenti, con culmine durante la Grande Depressione (primi anni trenta, dopo il famoso Giovedì Nero di Wall Street). La comunità ispanica mutò, col passare degli anni, il termine inglese “mexicano” nel più familiare “chicano” proveniente da “mesheecanos” che sarebbe poi la pronuncia spagnola del termine inglese.

La seconda e terza generazione di immigrati, nell’epoca intorno (immediatamente prima e dopo) alla Seconda Guerra Mondiale, fu oggetto di discriminazioni di tipo razziale, pur se aveva perfettamente assimilato la cultura e la lingua inglese, soprattutto perchè i teen-agers di origine sudamericana avevano scelto un tipo di abbigliamento particolare (zoot suit) non approvato dai loro genitori e tantomeno gradito agli americani (“anglo”): i tratti distintivi dell’abbigliamento erano costituiti da scarpe lucidissime, pantaloni e giacca “blusanti” (almeno due taglie più di quanto necessario), preferibilmente neri od a righe, camicia e cravatta a righe, quadri e di vari colori, una lunghissima doppia catena per l’orologio da taschino (spesso inesistente) ed il cappello “tipo Borsalino” già segno distintivo dei gangsters di Chicago.

Durante il decennio a cavallo tra gli anni sessanta e settanta del 1900, terminate le questioni legate alla razza, la gioventù di origine sudamericana diede vita ad un movimento culturale che è caratterizzato da ogni specie di manifestazione artistica: dalla poesia alla musica ed al richiamo delle tradizioni ataviche, fino a toccare aspetti propri della storia Azteca, Olmeca e Maya. Il movimento viene spesso identificato con il mitico nome di “Aztlàn” e coinvolge tutta l’etnia che si identifica in “la raza” (la razza) in opposizione, e per distinguersi da “whites” e “blacks” (bianchi e neri). Ulteriore distinzione si ebbe con l’adozione del termine “pachuco” derivato dai frontalieri (“traqueros”) che parteciparono alla costruzione della Ferrovia verso Los Angeles, e quì si giustifica l’espansione del tipo di cultura.

Apparentemente tutto l’iter appena descritto non ha nulla a che fare con i mezzi di trasporto: sostanzialmente, invece, un ulteriore segno distintivo dei teen-agers “chicanos” o “pachucos” era costituito, già a partire dalla fine degli anni trenta, dal possesso di un’automobile (impossibile ed impensabile a livello economico per padri e nonni), quasi sempre di seconda mano, e prevalentemente di Marca Chevrolet,  “perchè più economica di altre Marche e più facilmente riparabile”. All’epoca, ovvero un decennio prima del Memorandum Arkus-Dunov, la Chevrolet era considerata una vettura “da padre di famiglia” in quanto economica, affidabile “quanto può esserlo un taxi” e capace di mantenere un certo valore nel tempo.

I teen-agers di etnia spagnola erano a conoscenza del movimento (in certo qual modo ribelle quanto lo era quello de “la raza”) e delle abitudini create e seguite dagli hot rodders (soprattutto grazie alla condivisione del territorio, Sud California), pur se immediatamente decisero di “distinguersi” dagli “anglos”. Le vetture degli hot rodders erano caratterizzate dalla famosa formula “big and littles” (ruote piccole davanti e grandi dietro) che conferivano l’aspetto definito “California rake”, con il retrotreno sollevato. Perfettamente informati sulle tecniche usate anche dai customizers, decisero di abbassare le loro vetture (siamo già oltre la fine della Guerra) fino ad adottare il look “rasoterra” che doveva connotare queste vetture per decenni, fino ai giorni nostri.

A livello tecnico i primi esperimenti utilizzavano già lo swappping (trapianto) di particolari, quali le mascherine dei radiatori ed i paraurti (preferito quello della De Soto 1937), per ottenere l’aspetto “alligator hood” (cofano da alligatore) che ulteriormente abbassava l’aspetto estetico. Non mancavano altri particolari quali le gomme a fascia bianca, i copri-mozzi cromati, due antenne-radio obbligatorie ed una terza luce di stop (anche questa immancabile). Per finire verniciatura “custom” con abbondante presenza di “murales”, su cofani e fiancate, di chiara ispirazione etnica.

Gli anni settanta sono testimoni di una notevole espansione del movimento “lowriders”, tanto che alcuni frettolosi Cronisti fanno risalire le origini a questo periodo, ed una recrudescenza della Legge contro di loro: famoso il “code #24008”, una Legge che praticamente autorizzava i CHiP’s a multare le vetture con la semplice motivazione “troppo bassa”.

E’, invece, in questo stesso lasso di tempo (più o meno) che viene introdotta la moda delle sospensioni modificabili: i primi esperimenti si avvalevano di martinetti idraulici che consentivano di evitare il code #24008 con un pomello di comando sul cruscotto, ma la fantasia “latina” prese il sopravvento con una “complicazione” elettroidraulica stupefacente, basata su vere e proprie “batterie di batterie” (accumulatori elettrici collegati in serie) che alimentano pompe idrauliche (almeno una per ogni ruota) indipendenti: il risultato è un assetto comandabile a piacere, anche asimmetrico, e perfino durante la marcia (ovviamente a bassa velocità, durante il cruising). Da quì la sentenza popolare di “macchine che ballano” (dancing cars) a tempo di musica, ovviamente latino americana e generata da impianti on-board “esagerati”.

Tutta la letteratura e migliori spiegazioni sull’evoluzione dei lowriders è consultabile on-line presso il sito della Rivista più diffusa ed in un certo modo autorevole, “Lowrider Magazine”, all’indirizzo URL http://www.lowridermagazine.com/smile-arr02

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